A un
certo punto entrano alcuni uomini vestiti di grigio con una bara di
zinco ermeticamente chiusa, scoperchiano la bara e vi depositano
dentro una persona nuda. Io capisco che la persona che passandomi
davanti portano fuori dalla stanza da bagno nella bara di zinco di
nuovo ermeticamente chiusa è la stessa persona che si trovava nel
letto davanti al mio. La suora ormai viene dentro soltanto per alzare
la mia mano. Per sentire se il polso è ancora percettibile. Tutt'a
un tratto mi cade addosso con un tonfo la biancheria bagnata che per
tutto quel tempo è rimasta sopra di me, appesa a una corda tirata in
diagonale nella stanza da bagno. Dieci centimetri più in là e
quella biancheria mi sarebbe caduta sulla faccia e io sarei morto
soffocato. La suora entra, raccoglie la biancheria e la getta su uno
sgabello accanto alla vasca da bagno. Poi solleva la mia mano. Per
tutta la notte non fa che passare da una stanza all'altra, sollevare
mani e sentire polsi. Comincia a disfare il letto nel quale è appena
morto un essere umano. Un uomo, a giudicare dal respiro. Getta le
lenzuola sul pavimento, e solleva la mia mano come se si aspettasse
che adesso io muoia. Poi si china, prende le lenzuola ed esce dal
bagno con in mano le lenzuola. Adesso io voglio vivere. La suora
entra ancora qualche volta e solleva la mia mano. Poi, sul fare del
giorno, vengono degli infermieri che issano il mio letto su ruote di
gomma e lo riportano nella camerata. Il respiro dell'uomo davanti a
me, penso, si è arrestato all'improvviso. Io non voglio morire,
penso. Non adesso. L'uomo tutt'a un tratto ha smesso di respirare.
Aveva appena smesso di respirare e già gli uomini in grigio della
sala anatomica erano entrati e lo avevano deposto nella cassa di
zinco. La suora non ce l'ha fatta più ad aspettare che smettesse di
respirare, pensai. Anch'io avrei potuto smettere di respirare. Come
so adesso, ero stato riportato nella camerata verso le cinque. Ma né
le suore, e neanche i medici, probabilmente, erano del tutto convinti
del mio miglioramento, perché altrimenti le suore non mi avrebbero
fatto impartire dal cappellano dell'ospedale, verso le sei del
mattino, la cosiddetta estrema unzione. Di questo cerimoniale quasi
non mi sono accorto. Ho avuto in seguito l'opportunità di osservarlo
e studiarlo su molte altre persone. Volevo vivere, tutto il resto non
aveva importanza. Vivere, vivere la mia vita, viverla come e fino a
quando mi pare e piace. Senza essere un giuramento, questo fu ciò
che si propose il ragazzo quando ormai era dato per spacciato
nell'attimo in cui l'altro, l'uomo davanti a lui, aveva smesso di
respirare. Quella notte, nell'attimo decisivo, tra le due possibili
strade io avevo deciso la strada della vita. Non ha senso rimuginare
se la mia decisione fu giusta o sbagliata. Il fatto che la pesante
biancheria bagnata non mi fosse caduta sulla faccia e non mi avesse
soffocato era stato all'origine della mia scelta di non smettere di
respirare. Non avevo voluto smettere di respirare come l'altro
davanti a me, avevo voluto continuare a respirare e continuare a
vivere. Dovevo assolutamente convincere la suora, la quale di sicuro
era in attesa della mia morte, a farmi prelevare dalla stanza da
bagno e riportare nella camerata, e dunque dovevo continuare a
respirare. Se la mia volontà avesse ceduto per un solo istante, non
sarei vissuto un'ora di più. Stava a me la scelta se continuare a
respirare oppure no. A prendermi nella stanza da bagno non erano
venuti i barellieri addetti al trasporto dei cadaveri con i loro
grembiuli da sala anatomica, ma piuttosto, come io volevo, gli
infermieri vestiti di bianco che mi avevano riportato nella camerata.
Ero io che decidevo quale delle due strade era meglio imboccare. La
strada della morte sarebbe stata facile. E d'altra parte la strada
della vita ha il vantaggio dell'autodeterminazione. Non ho perso
tutto, tutto mi è rimasto. E' questo che devo pensare se voglio
andare oltre.
(Thomas
Bernhard - Il respiro, pagg. 18-20. Adelphi editore)
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