Solo sulla data ho dovuto riflettere a
lungo, perché è quasi impossibile per me dire 'oggi', sebbene ogni
giorno si dica, anzi, si debba dire 'oggi', ma se qualcuno mi
comunica quel che si propone di fare oggi – per non dire domani –
non assumo, come di solito dicono, uno sguardo assente, ma uno molto
attento, per l'imbarazzo, tanto è privo di speranza il mio rapporto
con l' 'oggi', perché questo Oggi lo posso passare solo con una
tremenda angoscia e una fretta pazzesca, e scrivere, o solo dire, in
questa tremenda angoscia, ciò che succede, perché si dovrebbe
distruggere subito quello che vene scritto sull'Oggi, come si
strappano, si spiegazzano, non si finiscono, non si spediscono le
lettere vere, perché sono di oggi e perché non arriveranno più in
nessun Oggi.
Chi una volta ha scritto una lettera
orrendamente supplichevole, per poi strapparla e gettarla via, sa più
di ogni altro ciò che va inteso qui per 'oggi'. E chi non conosce
questi biglietti quasi illeggibili: "Venga, se mai, se può, se
vuole, se Glielo posso chiedere! Alle cinque al Café Landtmann!".
O questi telegrammi: "Prego telefona subito stop oggi stesso".
Oppure: "Oggi non è possibile".
Perché Oggi è una parola che solo i
suicidi dovrebbero usare, per tutti gli altri non ha assolutamente
alcun senso, 'oggi' è soltanto la designazione di un giorno
qualsiasi per loro, di oggi precisamente, per loro è evidente che
debbono lavorare ancora una volta otto ore, oppure sono liberi,
faranno commissioni, compreranno qualcosa, leggeranno un giornale del
mattino e uno della sera, prenderanno un caffè, avranno dimenticato
qualcosa, hanno un appuntamento, devono telefonare a qualcuno, un
giorno quindi in cui deve succedere qualcosa oppure, meglio ancora,
non succede gran che.
Se io invece dico 'oggi', il mio
respiro comincia a diventare irregolare, subentra l'aritmia che ora è
anche verificabile su un elettrocardiogramma, solo non risulta dal
tracciato che la causa è il mio Oggi, una cosa sempre nuova,
incalzante, ma la prova del disturbo posso produrla, redatta nel
volubile codice dei medici, di qualcosa che precede l'attacco di
angoscia, mi predispone, mi stigmatizza, oggi in modo ancora
funzionale, così dicono, credono loro, gli esperti. Solo io temo sia
l' 'oggi', che è per me troppo eccitante, troppo enorme, troppo
commovente, e in questa eccitazione patologica sarà per me 'oggi'
fino all'ultimo momento.
Se io dunque sono arrivata non certo
per caso, ma per una costrizione terribile, a questa unità di tempo,
debbo l'unità di luogo a un caso benevolo, perché non l'ho trovata
io. In questa unità molto più improbabile sono giunta a me stessa,
e mi riconosco in essa, ah, e quanto, perché il luogo è
nell'insieme Vienna, in questo non c'è ancora niente di strano, ma
più esattamente il luogo è solo una via, o meglio un breve tratto
della Ungargasse, e questo dipende dal fatto che abitiamo là tutti e
tre, Ivan, Malina e io. Quando si guarda il mondo dal III distretto,
si ha una visuale così limitata, si è naturalmente portati a dare
rilievo alla Ungargasse, a cavarne fuori qualcosa, a lodarla e a
darle una certa importanza. Si potrebbe dire che è una via
particolare, perché comincia in un posto quasi silenzioso, quasi
amabile dello Heumarkt e da qui, dove abito, si può vedere il parco
municipale, ma anche i minacciosi Mercati Generali e la Dogana
Centrale. Qui ci troviamo ancora tra case dignitose, sbarrate, e solo
poco oltre la casa di Ivan, col numero 9 e i due leoni di bronzo al
portone,
la strada diventa più inquieta, disordinata e irregolare,
sebbene si avvicini al quartiere dei diplomatici, ma lo lascia a
destra e mostra poca affinità con quel 'quartiere dei nobili' –
come è chiamato comunemente. Si rende utile con piccoli caffè e
molte vecchie trattorie, noi andiamo all'Alter Heller, in mezzo si
trova un garage efficiente, Automag, la Farmacia Nuova anch'essa
molto efficiente, una tabaccheria all'altezza della Neulinggasse, e
non dimentichiamoci della buona panetteria all'angolo con la
Beatrixgasse, e, grazie a Dio, della Munzgasse, in cui possiamo
parcheggiare, anche quando non c'è più posto da nessun'altra parte.
A tratti, per esempio all'altezza del Consolato Italiano, con
l'Istituto Italiano di Cultura, non si può negarle un certo tono, e
tuttavia non ne ha troppo, perché al massimo all'avvicinarsi del
tram O, o altrimenti alla vista dell'infausto garage dei furgoni
postali, su cui due targhe non si sprecano e dicono brevemente
"Imperatore Francesco Giuseppe I, 1850" e "Segreteria
e officina", si dimenticano i suoi sforzi per elevarsi, e ci
ricorda la sua lontana giovinezza, la vecchia Hungargasse, dove i
commercianti provenienti dall'Ungheria, mercanti di cavalli, di buoi
e di fieno avevano i loro aloggi, le loro locande, e così prosegue,
come dicono nelle guide, "con un grande arco in direzione del
centro".
|...|
A Vienna ci sono, ed è facile
indovinarlo, strade molto più belle, ma si trovano in altri
distretti, e con esse accade come con le donne troppo belle, che si
guardano subito con l'omaggio dovuto, senza mai pensare di entrare in
relazione con loro. Ancora nessuno ha mai sostenuto che la Ungargasse
sia bella, o che l'incrocio Invalidenstrasse-Ungargasse lo abbia
affascinato o lo abbia fatto ammutolire. Così non voglio cominciare
per prima a fare affermazioni inconsistenti sulla mia, sulla nostra
strada, farei meglio a cercare in me stessa la ragione
dell'attaccamento che ho per la Ungargasse, perché solo in me
descrive il suo arco, fino al numero 9 e al numero 6, e mi dovrei
chiedere perché sono sempre nel suo campo magnetico, anche quando
attraverso la Freytung, faccio spese sul Graben, vado a zonzo verso
la Biblioteca Nazionale, mi fermo nella Lobkowitzplatz e penso, è
qui, proprio qui che si dovrebbe abitare! Oppure sulla piazza Am Hof!
Anche quando mi gingillo per il centro e fingo di non voler tornare a
casa, mi siedo per un'ora in un caffè e sfoglio giornali, però
dentro di me vorrei già essere per strada e a casa e quando volto
nel mio quartiere dalla parte della Beatrixgasse, dove abitavo prima,
o arrivando dallo Heumarkt, la pressione mi aumenta e nello stesso
tempo cede la tensione, lo spasimo che mi coglie in spazi
sconosciuti, e alla fine, sebbene cammini più in fretta, sono ormai
tranquilla e fremo di felicità. Niente è più sicuro per me di
questo tratto della strada, di giorno salgo di corsa le scale, la
notte mi precipito sul portone di casa, con la chiave già in mano, e
torna il momento benedetto in cui la chiave gira, il portone si apre,
la porta si apre, e questo senso del ritorno a casa mi inonda nella
schiuma del traffico e della gente già in un giro di cento, duecento
metri, in cui tutto mi annuncia la mia casa, che naturalmente non è
la mia casa, ma appartiene a una S.p.A. o a qualche banda di
speculatori che ha ricostruito, o meglio rappezzato, questa casa, ma
di questo ne so poco o niente perché negli anni della ricostruzione
abitavo a dieci minuti di distanza e passavo davanti, quasi sempre
angustiata e con cattiva coscienza, al numero 26,
che per molto tempo
fu anche il mio numero fortunato, come un cane che ha cambiato
padrone rivede il vecchio e non sa più a chi deve maggior
attaccamento.

Ma oggi passo davanti al 26 della Beatrixgasse come non ci fosse mai stato niente, quasi niente, oppure, ma sì, una volta lì c'era un profumo di tempi antichi, e ora non ce n'è più traccia.
Prima che io mi trovi fuori dalla
stanza, prima che mi convinca che comunque nella casa di fronte
Beethoven sordo ha composto la Nona, e anche altre cose, ma io
non sono sorda, potrei raccontare a Ivan tutto quello che c'è oltre
alla Nona.
E' meglio che vada
a casa, alle tre del mattino sono appoggiata al portone della
Ungargasse 9, con le teste dei leoni ai due lati, e poi mi fermo
ancora un po' davanti al portone della Ungargasse 6, risalendo con lo
sguardo, nella mia passione, la strada in direzione del numero 9, ho
dinanzi agli occhi il cammino della mia passione, che ho di nuovo
percorso spontaneamente, dalla sua casa alla mia. Le nostre finestre
sono buie.
Vienna tace.
(Ingeborg Bachmann,
Malina, pagg. 12-15, 16-17, 69,153)
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